Le conclusioni del Presidente Nazionale al Convegno promosso dall’ANPI e dalla ZZB-NOB (Associazione dei Partigiani Sloveni) il 5 febbraio 2022 a Gorizia sul tema: “La storia insieme”.

7 Febbraio 2022 Lascia un commento »

Nel convegno si è sostenuta la necessità e l’urgenza di una larghissima diffusione, in passato mai avvenuta, della relazione della Commissione italo-slovena presentata nel 2000 e commissionata dai Ministri degli Esteri delle due Repubbliche nel 1993. Tale relazione può essere la base di una memoria condivisa, che è stata profondamente lacerata dopo il 2004 dalle violente e faziose torsioni che la destra italiana ha imposto alle celebrazioni del “Giorno del Ricordo”.

LE CONCLUSIONI DI GIANCARLO PAGLIARULO

Ringrazio gli storici per le importanti riflessioni che ci hanno proposto. Ringrazio il
sindaco di Gorizia, le associazioni e le autorità presenti. Ringrazio e saluto con
particolare affetto Marijan Krizman, presidente della ZZB NOB, con cui abbiamo
costruito un forte rapporto di vicinanza e di solidarietà politica di cui questa iniziativa
è una ulteriore conferma. Informo che venerdì in Croazia incontrerò il presidente
dell’associaione dei partigiani croati Franijo Habulin e gli proporrò una comune
iniziativa nell’isola di Rab, Arbe, cioè in uno dei luoghi della memoria e della cattiva
coscienza nazionale nostra. Abbiamo deciso di dar vita a questo incontro qui, a
Gorizia Nova Gorica, perché questa terra è stata una terra del dolore in particolare
nella prima metà del 900, perché qui si mescolano le lingue, le culture, le storie, le
famiglie, perché da qui ripartiamo, siamo già ripartiti per un tempo nuovo, di
fratellanza.
Qui a Gorizia avvenne l’ecatombe del 9 e 10 agosto 1916 quando durante la battaglia
morirono quasi centomila uomini fra italiani e austriaci. A questo prezzo la città fu
conquistata, poi persa, poi definitivamente ripresa dall’Italia nel novembre del 1918.
Qui, come in tutta la regione, il fascismo impose l’italianizzazione forzata, della
provincia e della città furono alcuni dei deportati ad Arbe, a Gonars, a Visco. Qui per
tre settimane nel settembre 1943 combatterono contro tedeschi e fascisti e con gli
sloveni i partigiani della Brigata proletaria lasciando sul terreno circa cento uomini.
Qui ci fu l’amministrazione tedesca sotto il controllo del Gaulaiter della Carinzia, uno
dei tanti dati rimossi dalla memoria pubblica nazionale, e poi l’occupazione del 9°
Corpus sloveno; qui passa il confine segnato dal trattato di Parigi fra goriziani, quel
confine che per noi e per tutti è una pura espressione geografica, perché è una porta e
non un muro, e su quella porta oggi aperta grazie all’UE Marijan Krizman e io poco
fa abbiamo poggiato un mazzo di fiori in segno di amicizia, prossimità, solidarietà.
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Questa iniziativa per l’ANPI oggi è un’altra tappa di un percorso iniziato da tempo, in
particolare nel 2016 col convegno di Milano sul confine italo-sloveno e poi il 4
febbraio 2020 col convegno di Roma sul fascismo di confine e sul dramma delle
foibe e poi ancora l’anno scorso da remoto il convegno sull’invasione della
Jugoslavia in occasione dell’80° anniversario, passato prevalentemente sotto silenzio
nella grande stampa e nella politica italiana. Ma oggi c’è di più, perché svolgiamo
questa iniziativa con i nostri fratelli sloveni, con la ZZB NOB, insieme. Ecco perché
abbiamo chiamato questa discussione “La storia insieme”.

Noi pensiamo che la pubblicazione della relazione della commissione mista italo-
slovena sia un punto di non ritorno grazie a cui la ricerca storica è andata avanti. Non

posso dire lo stesso, come ha detto Gobetti, della politica italiana. Per la quale – uso
le parole del professor Baiz – il giorno del ricordo ha preso il posto della relazione
italo-slovena.
Per dare un’idea di quanto sia opportuna l’iniziativa che stiamo concludendo, vi
leggo il titolo di un lungo articolo uscito il 3 febbraio sul quotidiano italiano di destra,
Libero: “Revisionismo rosso: per celebrare il Giorno del Ricordo i partigiani invitano
i filo-titini”. E poi un altro, del Secolo d’Italia: Foibe, l’Anpi ci riprova: convegno
negazionista a Gorizia con i partigiani sloveni ed Eric Gobetti. Si riferiva a questa
iniziativa.
Anche da queste miserie, da queste strisce di odio e di falsità si coglie l’urgenza di
una profonda rettifica di tiro che impedisca che il Giorno del Ricordo continui ad
essere una sorta di damnatio memoriae della Resistenza ed una conseguente
assoluzione del fascismo, un’apologia di un nuovo ipernazionalismo, un
capovolgimento della storia, una sorta di rendita memoriale a vantaggio di una parte
politica. Ha ragione lo storico Giovanni De Luna che ha parlato di “paradigma
vittimario”. Domina nelle celebrazioni, come ha detto Eric Gobetti, la memoria,
rispettabile ma parziale, ma scompare la storia, prevale insomma una banalizzazione
nazionalista a scapito della storia integrata.
Va notato che la riscrittura in corso da anni, da parte delle forze politiche e culturali
ancora pregne di sedimenti fascisti, tende a sacralizzare quello specifico punto di
vista sulla storia, cioè a renderlo indiscutibile perché aprioristicamente giusto e
immodificabile, come un credo religioso, e così facendo nega il senso stesso della
storiografia come ricerca in continuo itinere mai conclusa e compiuta una volta per
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L’esito paradossale di questa torsione è che a più di vent’anni dalla stesura definitiva
della relazione della Commissione storico culturale italo-slovena invece di conseguire
il fine di superare conflitti, barriere e tensioni, si è ottenuta a colpi di propaganda una
nuova, pesante lacerazione della stessa società italiana; invece di incentivare una
visione oggettiva, e perciò necessariamente transnazionale, delle vicende del confine,
si continua a spingere l’acceleratore su nazionalismo e irredentismo; invece di
promuovere la fratellanza fra i popoli si semina a piene mani il germe dell’odio.
Noi siamo qui, assieme alle nostre compagne e ai nostri compagni sloveni, per fare,
per quanto ci è possibile, l’esatto contrario, e cioè disinnescare queste dinamiche e
rilanciare quella comune volontà analitica che ispirò la Relazione della Commissione
storico culturale, senza nulla togliere al Giorno del ricordo nell’interezza dell’art. 1
della legge istitutiva, che fa specifica riferimento alle foibe e all’esodo, ma aggiunge
anche “la complessa vicenda del confine orientale”.
La prima considerazione che vorrei fare riguarda alcuni dati di fatto: l’Italia è è uno
Stato nazionale dalla metà dell’Ottocento e conta oggi circa 60 milioni di abitanti. La
Slovenia diventa Stato nazionale il 25 giugno 1991, prima di un – per fortuna –
brevissimo conflitto armato, è abitata da poco più di 2 milioni di abitanti e ha la
superficie inferiore a un decimo della superficie del nostro Paese.
La Croazia conta circa 4 milioni di abitanti ed ha una superfice pari ad un sesto di
quella italiana. L’Italia non ha più l’ingombrante, grande e forte vicino jugolsvo, ma
due paesi molto più piccoli. Questo, nel tempo della strisciante rilegittimazione del
fascismo, può motivare spinte irredentistiche simbolicamente incarnate nella gaffe
dell’allora presidente del Parlamento europeo, l’ex-monarchico Antonio Tajani,
quando il 10 febbraio 2019 disse fra l’altro “ Viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia
italiana “, suscitando l’ovvia e pesante reazione dei governi croato e sloveno. La
Slovenia, prima dell’indipendenza, nel corso di un secolo ha fatto parte di tre diversi
Stati multinazionali, uno dei quali, l’Impero Austro-Ungarico, crollò alla fine della
Prima guerra mondiale assieme ad altri due grandi imperi, l’Impero Ottomano e
l’Impero zarista, sconvolgendo l’intero panorama degli assetti europei anche con la
nascita di nuove nazioni.
Per molti aspetti fu proprio quella guerra a tracciare il segno di tutta la prima metà del
Novecento. Quella guerra, come ci ha detto il professor De Luna in un convegno del
4 febbraio 2020, conferma il Novecento come il secolo delle masse, e ha aggiunto,
dei mezzi di comunicazione che diventeranno di massa, della produzione che
diventerà di massa, dei consumi che diventeranno di massa, e della morte di massa,
perché la Prima guerra mondiale è morte di massa.
Da questo incendio e da questo sangue nascono le successive tragedie del Novecento,
il fascismo e, dopo il crollo di Wall Street, il nazismo. Ed è con quella guerra che il
segno positivo dell’amor di patria, il patriottismo che aveva caratterizzato la prima
metà dell’Ottocento, si trasforma progressivamente nella sua degradazione, nell’odio
verso lo straniero, cioè il nazionalismo che porterà alla prima guerra e poi alla
spaventosa esplosione della seconda guerra mondiale.

E’ interessante notare la citazione nella relazione italo-slovena del nome dell’italiano
Ruggero Timeus morto a soli 23 anni in guerra nel 1915, teorico radicale di un
nazionalismo estremo e della missione civilizzatrice dell’Italia che corrispondeva a
una sua espansione economica nell’Adriatico. Dal canto suo Mussolini nel settembre
del ’20 quando già imperversava la violenza assassina del fascismo di confine contro
sloveni, croati. ebrei e oppositori politici, affermò a Pola: “di fronte a una razza come
la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma
quella del bastone”. Un mese prima, nell’agosto del 1920, il deputato Giovanni
Cosattini denunciò alla Camera che in Istria «dalle 500 alle 600 persone furono
internate senza evidente motivo. 1200px-Partizani_u_Sarajevu_1945
Si vedeva in ogni slavo un nemico od una spia; da qui la politica del terrore e della
persecuzione … Nei villaggi slavi la legge, la libertà, il diritto non contano nulla. Vi
regna l’arbitrio del Comandante locale, del Commissario comunale, del brigadiere dei
carabinieri… Lo scioglimento delle associazioni, il divieto delle riunioni, la
persecuzione dei maestri, le perquisizioni che arrivano senza alcuna autorizzazione
della magistratura e senza garanzie legali».
Era il tempo in cui un quarto del popolo sloveno viveva entro i confini italiani, si
diffondeva lo stereotipo dello slavo incolto, si distruggeva in mille modi l’identità
slovena e croata.
Vero è che durante un conflitto armato il nemico viene sempre dipinto in un modo
disumanizzato. Ma è anche vero, a quanto mi pare, che nei confronti dei popoli slavi
al modello della guerra fra Paesi cosiddetti civili si sostituisce il modello della
guerra coloniale, dove la disumanizzazione assume tratti speciali e il nemico diventa
a tutti gli effetti un tipo di sotto-uomo, poco più che animale e comunque assetato di
sangue. Per avere un’idea basti vedere il manifesto sul Giorno del Ricordo della
Regione Piemonte, promosso da un assessore di estrema destra, un’immagine in cui il
nemico, slavo-comunista, è rappresentato da umani inumani, mostruosi, giganteschi,
senza volto, neri ma con la stella rossa sul berretto, armati fino ai denti che inseguono
civili in fuga. Propriamente, un manifesto fascista.
Mentre il fascismo di confine diventava regime, cresceva la reazione slovena
contrapponendosi alla politica di snazionalizzazione del fascismo e di distruzione
dell’identità nazionale slovena e croata. Emblematico il ruolo, citato nella relazione,
dell’organizzazione antifascista militare TIGR, che rispondeva con le armi al terrore
e al sangue, e a cui il fascismo rispose con ulteriore terrore ed ulteriore sangue, e il
cui stesso acronimo – Trieste Istria Gorizia Rijeka – poneva il tema del contrasto alla
snazionalizzazione.
Non voglio aggiungere altro alla disamina storica del professor Salimbeni e della
professoressa Troha. Dico solo che è una terra in cui c’era la compresenza ed anche
la compenetrazione delle lingue, delle culture e delle tradizioni di italiani, sloveni e
croati. Una compresenza ed una compenetrazione che conteneva la radice della
fratellanza ma la cui negazione attraverso le politiche del fascismo si trasformò in una
dannazione per tutti. Poi venne quel 6 aprile 1941 quando il Regno di Jugoslavia fu
invaso dalle potenze dell’Asse, la Slovenia fu smembrata e l’Italia occupò la sua
parte meridionale, oltre al Kossovo, al Montenegro ed alla costa inferiore della
Dalmazia, attribuendosi in modo del tutto arbitrario il possesso giuridico e
istituzionale di Lubiana che diventò provincia del Regno. Ecco la grande rimozione
della politica e dello Stato italiano di cui ha parlato il professor Baiz; ecco la prova
della radicale decontestualizzazione su cui si sono soffermati la professoressa Troha e
il compagno e amico Marina Krizman.
Si sa, ma ancora in circoli troppo ristretti, degli inenarrabili delitti di cui si macchiò
l’invasore e della triste fama di alcuni generali italiani, impuniti criminali di guerra,
del destino dei reclusi nei campi di concentramento fra cui Gonars e l’isola di Rab,
della fucilazione dei civili da parte dei militari italiani emblematicamente
rappresentata nella foto dei villaggio Dane nel 1942. Per i paradossi della storia e per
gli sconci misteri della propaganda, quella foto è stata ripetutamente usata
falsificandone il segno: partigiani sloveni che fucilano gli italiani per poi infoibarli.
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La guerra finì con la sconfitta dell’Italia, riscattata nell’onore e salvata in gran parte
nella sua integrità territoriale dalla Resistenza. Ben altro fu il destino della Germania,
disfatta, e del Giappone, luogo di un unicum: l’olocausto nucleare. Ma il punto
dolente non poteva che rimanere il Litorale Adriatico dove la nuova Jugoslavia
avanzava ulteriori rivendicazioni territoriali. Da ciò la lunga, drammatica e complessa
storia di Trieste, la cosiddetta corsa verso Trieste, occupata con 24 ore di anticipo
dall’esercito di Tito rispetto ai neozelandesi quel 1° maggio 1945 e la vicenda
dell’occupazione slovena di Gorizia.
Una storia in cui si intersecano tante altre storie: i rapporti fra la Jugoslavia e
l’Unione sovietica fino al 1948, la rottura successiva, le divisioni e le contraddizioni
all’interno del Partito Comunista Italiano, l’orientamento finale di Togliatti per
l’italianità di Trieste, il ruolo di Londra e di Washington nel nuovo mondo della
guerra fredda.
Dal ’43 in poi, in forme, per ragioni e per responsabilità diverse, si avviano le tristi
vicende delle foibe e dell’esodo. Queste vicende non possono essere affrontate, come
fanno i fascisti di ieri e di oggi, decontestualizzandole e tanto meno, per ciò che
riguarda le foibe, azzardando numeri inventati di sana pianta, ancor meno parlando di
genocidio, se le parole hanno un senso.
Ma l’analisi attenta del contesto può far capire, può spiegare ma non necessariamente
giustificare. Le foibe furono un orrore e l’esodo un dramma collettivo, che si colloca
come uno dei tanti traumatici spostamenti di popolazione nel quadro europeo della
fine della guerra mondiale. A proposito delle foibe del 1945, la relazione della
Commissione propone una ragionevole base di ricerca: “Un’ondata di violenza – è
scritto – che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone, parte delle
quali venne in più riprese rilasciata – in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni
contrari al progetto politico comunista jugoslavo – in centinaia di esecuzioni
sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle “foibe”, e
continua: “Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la
violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto
politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare
soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al
fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano,
assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o
presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della
Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo”.
Non ci fu in sostanza alcuna pulizia etnica, ma un’epurazione politica che, per quanto
sanguinosa ed esecrabile, non ha nulla a che vedere col concetto di pulizia etnica o
peggio ancora di genocidio. A proposito delle foibe istriane, quelle del 1943, il
documento dell’ANPI frutto del convegno di Milano del 2017 recita: “In Istria a
seguito di diverse sommosse, vennero istituiti organismi antifascisti che si
sostituivano alle autorità italiane e si insediarono i comandi partigiani. A Pisino il
Comitato popolare di liberazione proclamò l’unione dell’Istria alla Croazia e furono
eseguite una serie di condanne a morte di oppositori con la soppressione sia di fascisti
che di rappresentanti dello Stato italiano, di avversari politici e di persone autorevoli
della comunità italiana”. Si trattò in sostanza di una violenta resa dei conti in un
vuoto di potere che portò ad un mese di una sorta di anarchia dopo l’ 8 settembre.
Va ricordato che l’8 settembre, che noi giustamente ricordiamo come la data del
disastro, è per sloveni e croati , il giorno della liberazione da un’occupazione
sanguinaria. Fra l’altro non si può nascondere ciò che scrisse il gerarca e ministro dei
lavori pubblici Giuseppe Cobolli Gigli proprio a proposito dell’Istria tanti anni prima.
Egli sosteneva nel 1927 la necessità della pulizia etnica del suo stesso popolo – era di
origine slovena – attraverso la sostituzione degli agricoltori sloveni con coloni italiani
provenienti dalle province del Regno. imagesCA2SKUTA

Al ministro piaceva una particolare canzone che allora accompagnava le azioni
violente degli squadristi, canzone che egli stesso pubblicò con una propria
introduzione: «La musa istriana ha chiamato FOIBA il degno posto di sepoltura per
chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese le caratteristiche nazionali
dell’Istria».
In senso generalissimo mi pare che si possa ragionevolmente dire che le foibe furono
l’esito, uno dei tanti seppur particolarmente barbaro, di quel lungo processo di disumanizzazione delle coscienze che si era avviato con la gigantesca apologia della
violenza della Prima guerra mondiale. Tale processo si incarnò in una serie di eventi
che si fecero storia: le violenze squadriste, il rogo del Narodni Dom, la
snazionalizzazione degli sloveni e dei croati, le persecuzioni, i tribunali speciali, le
tragedie delle aggressioni militari ai Paesi d’Europa, le fucilazioni e le rappresaglie
contro i civili, le deportazioni nei lager, l’eliminazione dei sospetti, l’incendio dei
paesi, l’Adriatisches Künstenland.
Va ricordato che alle vittime italiane delle foibe si aggiungono in numero
probabilmente superiore le vittime dei campi di internamento jugoslavo, che ciò si
isrive nella più generale resa dei conti, che avviene in tante zone del nord d’Italia, e
che infine questo fenomeno si iscrive nella più generale resa dei conti in tanti paesi
europei.
E’ giusto perciò il ricordo di quelle drammatiche vicende, a condizione che esso si
accompagni alla memoria dell’intera precipitazione dei rapporti italo-sloveni. Quando
alcuni mesi fa sono stato a Lubiana con i compagni della ZZB-NOB abbiamo deposto
un fiore in una cava, a Gramozna Jama, dove i militari italiani fucilarono mi pare più
di 120 civili sloveni per rappresaglia.
Io non conoscevo l’episodio ma non ho potuto non pensare alle Fosse Ardeatine e a
quanto sia necessaria non solo una visione transnazionale delle vicende di quegli anni
ma anche, e specialmente dal punto di vista morale, una visione del dolore
transnazionale, un dolore che il nostro Paese ha procurato e poi subito, alle Fosse
Ardeatine, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, in tante altre stazioni della
sofferenza.
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Tutto ciò non cambia di una virgola il giudizio morale sull’orrore delle foibe e sulla
tragedia dell’esodo, ma cambia radicalmente il teatro di entrambi questi fenomeni. A
proposito di esodo occore aggiungere quello degli italiani dalle colonie africane, dalla
Grecia, dalla Francia e, per ciò che riguarda l’Europa, l’impressionante fenomeno
migratorio di milioni e milioni di tedeschi, in tanta parte deceduti, che fuggono dai
paesi dell’Est e le stragi di tedeschi e collaborazionisti.
Eppure è impensabile da parte della Germania una memoria di questa immane
tragedia separata dal contesto di responsabilità e di crimini del regime nazista. Ciò
che ancora stupisce è la radicale parzialità che è stata introdotta nel discorso pubblico
sul tema delle foibe e dell’esodo, la cui sacralizzazione fa scomparire eventi di
maggiore o minore gravità avvenuti a quel tempo.
Si enfatizza il brutale assasinio di Norma Cossetto, ma si tace sulla vera e propria
guerra alle donne condotta dai nazi-fascisti e sulle centinaia e centinaia di staffette,
partigiane e donne del popolo seviziate e uccise dai nazi-fasciste, a cominciare dalla
maggioranza assoluta delle medaglie d’oro.. Non c’è nessuna giornata del ricordo del
terribile ricordo delle marocchinate, riconosciuto dai comandi francesi in tanti casi
come diritto di preda dei reparti coloniali.
La drammatica vicenda dei più di 600.00 internati militari italiani, la stragrande
maggioranza dei quali rifiutò di combattere nelle fila naziste, è conosciuta soltanto
dagli storici e da ua ristretta cerchia di cittadini. In conclusione si può ricordare che
alla Conferenza di Mosca del ‘43 una risoluzione alleata prescrive che l’Italia
provveda alla defascistizzazione dello stato, cosa mai pienamente avvenuta.
Parafrasando Amleto si può dire che ci sono più cose fra il cielo e la terra che in tutta
la propaganda fascista, e citando Primo Levi si può affermare che aveva ragione
quando scrisse che ogni tempo ha il suo fascismo.
Aggiungo che ciò che continua a impressionare nella retorica dei fascisti e dei loro
amici è l’apoteosi della cancellazione dalla memoria pubblica: del fascismo di
confine, dell’invasione italiana della Jugoslavia, della guerra di liberazione dai
tedeschi, della Risiera di San Saba , dei delitti della banda Collotti e della X Mas solo
per fare degli esempi. A ciò si aggiunge la criminalizzazione di chiunque si permetta
di mettere in discussione la loro presunta verità storica, penso – oltre che all’Anpi –
all’amico Eric Gobetti, l’inquietante diktat alla ricerca storica che non deve mettere in
discussione la verità politica sulle foibe pena il taglio dei fondi, come negli ordini del
giorno approvati negli ultimi anni da due consigli regionali, il Friuli Venezia Giulia e
il Veneto, l’esclusione della casa editrice friulana Kappa Vu dal salone del libro di
Torino per volontà dell’assessore regionale alla cultura Tiziana Gibelli.

Un clima intollerante, autoritario, totalitario, molto lontano dallo stato di diritto e
dagli elementari principi di libertà sanciti alla Costituzione, e per di più incardinato di
un falso plateale e smaccato: l’accusa di negazionismo. Pare che tale accusa stia
decadendo davanti alla sua palese inconsistenza. Ma ecco subito la via di fuga,
l’accusa di riduzionismo che funziona così.
Se la verità dell’assessore tal dei tali afferma che ci sono state cento vittime e lo
storico documenta che è vero, ci sono state delle vittime, ma sono cinquanta, lo
storico in automatico diventa riduzionista, trasformando la ricerca storica in una
macabra competizione e pretendendo un possesso di verità, che nega ogni legittimità
alle opinioni altre. Oppure si discute sul significato delle foibe.

Facciamo un caso concreto. È di ieri la notizia. Afferma l’assessore Marrone, autore
dell’ignobile manifesto piemontese: “Secondo il presidente dell’Istoreto il massacro
delle foibe non sarebbe stato una pulizia etnica: negazionismo allo stato puro che
mina alle fondamenta qualsiasi ulteriore fiducia istituzionale nei suoi confronti.
Incontrerò al più presto l’assessore alla Cultura Poggio per valutare insieme la gravità di questa dichiarazione e le inevitabili conseguenze perché la misura è colma”.
Insomma, minaccia il taglio dei fondi.
Risponde Paolo Borgna, presidente dell’Istoreto ” Dire che gli infoibamenti del ’45
non furono pulizia etnica non significa essere “negazionisti”, né sminuire la gravità di
quei fatti. Gli uomini e le donne uccisi e gettati nelle foibe non lo furono in quanto
italiani ma essenzialmente per motivi di preventiva epurazione politica. Ciò non
significa per nulla giustificare quei fatti. Furono crimini di guerra e contro l’umanità.
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Cosa aspetta il Presidente della Regione Piemonte a prendere le distanze dai
comportamenti e dalle parole del suo assessore? O dobbiamo rassegnarci al clima
intimidatorio e violento del governo di alcune regioni?
Benvenuti in tempi interessanti, ha scritto diversi anni fa il filosofo sloveno Slavoj
Žižek per indicare il caos non solo economico, ma anche di certezze di prospettive in
cui vive l’Occidente. Da questo punto di vista viviamo davvero in tempi
drammaticamente interessanti oggi, perché dietro quel manifesto della Regione
Piemonte c’è un incitamento all’odio, un desiderio di vendetta, una disumanizzazione
del nemico. Si moltiplicano i casi di rappresentanti nelle Istituzioni – questa è la
gravissima novità – che ostentano comportamenti, gesti e dichiarazioni che fanno
riferimento al fascismo storico ed alla sua liturgia.

Siamo arrivati al punto che un’organizzazione dichiaratamente fascista assale e
occupa la sede nazionale del più importante sindacato italiano e che questa
organizzazione, nonostante ripetuti appelli, petizioni, incontri, non sia stata ancora
messa fuorilegge dal governo italiano. Intendiamoci: l’Italia non è così, c’è una sua
parte grande che non ha affatto dimenticato le tre parole chiave della Rivoluzione
francese: libertà, uguaglianza, fraternità. L’associazionismo e il volontariato
democratico, laico e religioso, sono protagonisti di pratiche solidali e di contrasto
contro qualsiasi discriminazione. C’è un popolo democratico diffuso, presente e
attivo. Ma c’è un’altra parte – guai se non lo sottolineassimo! – che muove in
direzione opposta, sotto la spinta della paura, della pandemia e della crisi economico-
sociale. E guai a noi se non vedessimo dietro il fenomeno dei no-covid e dei no-green
pass la presenza non esclusiva ma vasta e in alcuni casi egemone di gruppi e
formazioni di tipo neofasciste.
Si tratta peraltro di una deriva, com’è del tutto evidente, che riguarda l’intero
Occidente e anche la Slovenia. Come in Italia abbiamo Forza Nuova, Casa Pound,
Lealtà e Onore e centinaia di altre formazioni neofasciste minori, così leggo che in
Slovenia abbiamo fenomeni analoghi come, mi pare, Autonomen Nazionalisten,
Radical Lijubliana, Generazioni e Identità slovena, i paramilitari della Guardia
Stiriana. Né possiamo nascondere le preoccupazioni dell’Unione Europea in merito
ad alcuni aspetti dei diritti fondamentali e dello stato di diritto in Slovenia specie a
proposito degli attacchi alla partecipazione pubblica o all’autonomia dei media.
Se in Italia l’anno prossimo andremo alle elezioni politiche, in Slovenia fra qualche
mese si rinnova il Parlamento e il Presidente della Repubblica. Colgo l’occasione per
informare che l’insieme delle associazioni partigiane ed antifasciste italiane, dopo
ripetuti incontri che ho avuto a Bruxelles con i parlamentari europei, ha chiesto al
parlamento europeo di inserire nel trattato una clausola che fonda l’Unione
sull’antifascismo, l’antinazismo, l’antirazzismo e di discutere esattamente di questo
nella Conferenza sul Futuro dell’Europa.
A maggior ragione in questo clima di incertezze e di preoccupazioni causate dalla
pandemia e dalla crisi e avvelenato da una situazione prebellica in rapida
precipitazione, ultima delle quali l’invio di alcune migliaia di militari americani nei
Paesi di frontiera della Federazione Russa, c’è bisogno di passi evidenti, urgenti ed
espliciti nella direzione della fraternità fra i popoli e della pace nel mondo. Il più
importante patrimonio della pluridecennale costruzione dell’unità europea è la pace
nel continente, conservata per più di 70 anni. Guai a noi se questo patrimonio venisse
dissolto da avventure improvvide e letali.
Noi qui ed ora proponiamo proprio questo: non si faccia del Giorno del Ricordo un
momento di ulteriore strappo, di divisione fra gli italiani e fra gli italiani e gli sloveni.
Sia davvero una giornata di memoria osservante di tutte le memorie: delle foibe, degli
esodati, delle stragi operate in Slovenia e al confine. Sia una giornata di rispetto e non
di oltraggio, di analisi storica e non di propaganda, di fraternità e non di odio, di pace
e non di guerra. Questo è il messaggio che ci permettiamo di inviare alle autorità
italiane e alle autorità slovene.
Lo storico Joze Pirjevec scrisse nel lontano 1998: “L’Italia non è capace di
confrontarsi col suo passato”. Dimostriamogli che le cose possono cambiare, che le
cose stanno cambiando. E ricominciamo dal punto più alto di unità della ricerca
storica, da quella relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena a
cui abbiamo dedicato questo incontro. Abbiamo inviato recentemente una lettera al
ministro dell’istruzione e al ministro degli Esteri invitando ad una larga diffusione
della relazione italo-slovena in particolare nelle scuole. Perché, come ha detto il
professor Salimbeni, la relazione è un modello di ciò che unisce e non di ciò che
divide. Di questo oggi c’è assoluta necessità in Europa.
Abbiamo denominato questo incontro “La storia insieme”, pensando agli italiani ed
agli sloveni. La storia riguarda, com’è ovvio, le vite passate. Ecco, noi vogliamo
pensare alla storia insieme perché ci preme operare per la vita presente insieme,
perché non ci sono due umanità, c’è una sola umanità e noi pensiamo che essa,
l’umanità, debba essere al centro di una comune ricerca della felicità, e chiamiamo
questo pensiero nuovo umanesimo. E consentitemi, per indicare cosa vogliamo, per
indicare il nostro orizzonte, l’orizzonte dell’associazione che nacque dai partigiani
d’Italia e che rappresenta i valori di quei combattenti, di citare le parole dell’altro ieri
del Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. Cosa vogliamo? “Un’Italia
più giusta, più moderna, intensamente legata ai popoli amici che ci attorniano”.

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