Spartaco Perini, comandante della Brigata Patrioti Piceni – la banda del San Marco – racconta i tragici avvenimenti che precedettero le giornate del 3, 4 e 5 Ottobre 1943.
“In città regnava il malumore più completo per la poca previdenza delle autorità tutte, dal Prefetto al Questore al Tenente Colonnello dei RR.CC. (…). Infatti, gli elementi pessimi fascisti venivano liberati dal carcere e sostituiti con alcuni antifascisti. Si supplicò di distribuire il grano dell’ammasso alla popolazione, cosa che fu approvata dal Prefetto, ma quando si doveva iniziare la distribuzione, [l’ordine] fu ritirato- così si disse – per desiderio espresso dei tedeschi. Quindi uscì un bando per il servizio obbligatorio per le classi 1921-22-23-24 e 25. Fu allora che la mia idea si sviluppò e si propagò, tanto che molti giovani, appartenenti o no a queste classi, vennero da me a gruppi, onde chiedermi come si potevano contenere, esprimendo tutto il [loro] più vivo desiderio di combattere i tedeschi. Già il mio intenso lavoro aveva trovato qualcosa: gli uomini; le armi, invece, scarseggiavano ancora. Non mi scoraggiai per questo e, d’accordo col capitano Pigoni, effettivo del 49′ Fanteria, incominciai a far affluire tutti quei giovani volontari sulla Montagna dei Fiori, attraverso il Colle San Marco, assicurando loro che lassù ci sarebbero state armi e viveri per tutti. Io stesso mi ritirai con gli altri miei amici e alcuni colleghi sopra il Colle San Marco. Lì, con il capitano Pigoni, iniziai su più vasta scala, sempre nei limiti del possibile, il rifornimento di armi e di alimentari.
Eravamo al giorno 25 o 26 settembre e già i nostri effettivi erano cresciuti e si erano moltiplicati. Avevamo fatto progressi in fatto di armi e possedevamo dei muli appartenenti al Regio Esercito per le nostre salmerie, un autocarro in buono stato anch’esso del Regio Esercito è un altro in riparazione, nonché diversi veicoli e motociclette messi a nostra disposizione dai buoni e veri italiani. Avevamo avuto fucili per tutti prendendoli alle Casermette degli avieri, d’accordo col tenente Zerbino, [al quale era stato] comandato di custodirli per consegnarli poi ai tedeschi. Avevamo inoltre altri fucili mitragliatori, e le munizioni ed i rifornimenti continuavano ad affluire. Due miei amici, il tenente di complemento Celani Dario e il sergente maggiore pilota, due volte medaglia d’argento Petrelli Italo, attraverso una pericolosa missione svolta al porto di San Benedetto del Tronto, erano riusciti ad impadronirsi di tre mitragliatrici Breda e Fiat, che mi portarono sul Colle San Marco, dove avevo nel frattempo piantato il comando.
Con l’auto carro ed alcuni uomini armati andavamo di notte in città presso quei depositi di armi e di viveri che mi venivano segnalati dai miei informatori o da alcuni signori che appoggiavano il nostro movimento, fra i quali Castelli Vincenzo, Poli Rigo, Pascali Francesco, Loreti ed altri. Caricavamo sempre del materiale: teli da tenda, divise, scarpe, viveri e munizioni; poi lo ammassavamo in un magazzino messo a nostra disposizione dal Signor Parisi sul Colle San Marco, e quindi da qui lo smistavamo ai vari capisaldi che si venivano formando sulle pendici della Montagna dei Fiori. Feci anche stendere una linea telefonica che andava dal caposaldo più alto della nostra zona fino ad Ascoli, onde essere informato celermente di tutti i movimenti tedeschi. In più, avevo effettuato il collegamento, tramite una staffetta, con le bande armatedel Bosco Martese di Teramo, a circa dieci ore di strada; collegamento che valse ad aiutare come ci fu possibile queste bande, quando furono attaccate da reparti tedeschi. Avendo infatti avuto una richiesta di rinforzi e non potendone inviare perché ci trovavamo ancora in fase preparativa, detti il mio aiuto facendo saltare un ponte sulla Valle Castellana, sul quale i tedeschi avrebbero potuto transitare per prendere definitivamente alle spalle queste bande.”
“Avevamo anche un servizio sanitario svolto volontariamente dal dottor Cesari, noto antifascista.
Intanto si era unito hanno poi un altro capitano che [precedentemente] aveva raggiunto con altri uomini Montalto delle Marche: il capitano Torelli, di Reggio Emilia. Così, insieme ai due capitani e ad alcuni altri ufficiali inferiori ascolani, potemmo ancora meglio preparare i nostri piani d’azione.
La popolazione ascolana era tutta con noi e quelle poche volte che scesi in città in pieno giorno e in divisa (lassù eravamo tutti in divisa e organizzati militarmente,grazie al materiale che avevo potuto trovare nei capaci magazzini del 49′ Fanteria), fui fatto segno della più viva accoglienza e ammirazione. Alcuni signori ascolani si misero completamente a mia disposizione, [così come] alcuni magistrati e qualche ufficiale superiore. Questi ultimi però (…) si tennero prudentemente nell’ombra, senza uscirne fuori per tema di venire coinvolti e rischiare qualcosa. Una commissione bancaria mi fece addirittura sapere che se avessi avuto bisogno di danaro non dovevo far altro che chiederlo, e a mia disposizione ci sarebbero state forti somme. Io però rifiutai [quei soldi], dicendo che i miei volontari non avevano bisogno di alcuna decade o stipendio e che di viveri ne avevano a sufficienza. Intanto, il colonnello Miani si era eclissato totalmente dalle scene cittadine e metteva in giro voci che dicevano che egli aveva raggiunto le bande armate e ne aveva assunto il comando, d’accordo con il colonnello Santanchè. Tali voci furono da me smentite (…), [tanto che ebbi a dichiarare] che la persona meno adatta a tale incarico era proprio il colonnello Miani, a causa di tutti quelli errori grossolani da lui commessi in quel periodo.
Avevo sempre bisogno di armi, poiché la banda aumentava continuamente. Gli uomini infatti non venivano più da soli, ma a gruppetti di tre o quattro e perfino di dieci persone, che noi immettevamo nelle file di quella che era ormai la brigata dei patrioti piceni del governo Badoglio, dopo aver fatto loro una morale e fatto prestare un giuramento. Per [avere] tali armi fui alloracostretto a rivolgermi a qualche autorità e un giorno,credo il 29 settembre, mi recai dal tenente colonnello Carlesi, comandante dei RR.CC. (…). [Egli] mi fece grande accoglienza e rallegramenti, ma quando si trattò di cedermi alcune armi che sapevo in suo possesso e a lui e ai suoi uomini inutili, me le rifiutò, dandomi assicurazione che esse sarebbero servite per lui e per i suoi uomini nel momento in cui io l’avessi ritenuto opportuno e nel caso in cui fossimo stati attaccati dai tedeschi. Inoltre, egli non volle consentire a farmi rilasciare dalla stazione dei Reali Carabinieri di Comunanza un quantitativo di 16.000 colpi calibro 6.5, due fucili mitragliatori è una trentina di moschetti, adducendo le ragioni che quello era un gioco pericoloso, malgrado io stesso gli avessi proposto di fingere un attacco delle mie bande [alla caserma] e gli avessi fatto sapere come già fossimo d’accordo con il maresciallo comandante la stazione. Due giorni dopo,tali armi e munizioni vennero prese dai tedeschi su informazioni che non dubito furono procurate loro da qualcuno che voleva in tal modo liberarsi delle mie insistenti richieste, continuate anche attraverso una persona di fiducia.”
“Intanto, ad Ascoli i fascisti avevano rialzato le loro teste e collaboravano con il Comando Tappa tedesco, fornendo ad esso tutte le informazioni sui nostri movimenti e sulla dislocazione dei vari magazzini di alimentari, nonché [indicando] i nomi di note personalità antifasciste. Uno di questi fascisti (un irriducibile, noto assassino e delinquente), Menghi Adriano, appartenente all’OVRA, fu da me prelevato, in pieno giorno e in pubblica via, e condotto al nostro comando sul Colle San Marco. Questo fatto fece calmare alquanto i fascisti, ma non i parenti di costui, i quali, da quel momento, incominciarono a dare fastidio un po’ a tutti, in modo da indurre i tedeschi ad attaccarci. Facemmo un sommario interrogatorio al nostro prigioniero, da cui risultò come egli fosse in procinto di abbandonare l’Italia per la Germania; quindi lo tenemmo, con tutta la cura possibile, con noi, sorvegliato in permanenza sotto una tenda, avvertendo la sua famiglia che non gli avremmo torto un capello, purché fossimo stati lasciati in pace e non minacciati da un attacco tedesco.
Di questo rapimento, la cittadinanza tutta ci fu riconoscente e le stesse pavide autorità ci fecero sapere, a mezzo di emissari, di tenere ben guardato quel tizio pericoloso, perché se avessimo commesso la sciocchezza di rilasciarlo, egli avrebbe potuto procurare loro molti guai. Intanto, in città la milizia si era ricostituita grazie ad alcuni elementi facinorosi, così pure la federazione fascista, con il federale Lorello di Fermo, spalleggiato da Roscioli e Cioccoli. A podestà fu messo lo squadrista, anch’esso dell’OVRA, Mario Galanti.
La banda, dopo dieci giorni circa dalla sua formazione, contava sei-settecento uomini (…), [tra i quali c’erano anche] sessanta prigionieri americani, che tutta la popolazione aveva indirizzato sulla Montagna dei Fiori, [nonché] qualche carabiniere riuscito a fuggire dalla caserma, malgrado – come mi dissero – il loro comandante ne avesse sbarrato i cancelli e avesse poi spianato contro [di essi] le armi.
Fra tutti questi avvenimenti, arrivammo al 2 ottobre, giorno in cui si rivelò in pieno la minaccia che ci sovrastava (…). Fui infatti avvertito telefonicamente che reparti autocarrati tedeschi ci stavano aggirando, attestandosi alle basi della Montagna dei Fiori, ad est, presso Folignano, e ad ovest, da Castel Trosino. Ci mettemmo in allarme, furono mandate delle pattuglie in avvistamento e una di queste, verso le ore 16, si scontrò con una camionetta [tedesca] che, presa sotto il fuoco, venne messa fuori combattimento. I tedeschi riportarono diversi feriti, che furono visti [mentre venivano] caricati su di un’auto ambulanza (…). Alcuni civili cercarono inoltre di far rotolare il veicolo colpito sulle sponde del fiume Castellano. Poi la pioggia ed il maltempo, che imperversarono tutta la notte, tennero i tedeschi al riparo e ancora lontani da noi.
Si vegliò tutta la notte in giro per i vari gruppi armati e verso l’alba dovetti constatare che parecchi tra i più giovani e timorosi avevano abbandonato il loro posto e con loro, purtroppo, si erano allontanati anche due ufficiali, i sottotenenti Mario e Dino Pagliari, che io avevo messo al comando di un caposaldo dominante la strada carrozzabile che dalla città sale al Colle San Marco, onde impedire che le camionette armate potessero giungere nella zona dove avevamo la maggior parte del nostro materiale. Con tutti i rimasti (circa tre o quattrocento uomini), mi ritrovai a giorno fatto, quando i tedeschi, con le loro artiglierie piazzate su di un’altura prospiciente (il Colle San Giorgio di Rosara), iniziarono un intenso fuoco, concentrandolo su di una zona ove credevano ci trovassimo accampati e che invece avevamo abbandonato durante la notte. Truppe tedesche appiedate (all’azione presero parte circa cinque-seicento uomini) incominciarono poi a salire verso le nostre posizioni con tutta sicurezza, perché guidate dai fascisti della zona, buoni conoscitori dei luoghi.
Mio padre, che aveva voluto rimanere assolutamente vicino a noi, data la sua età avanzata lo feci allontanare dalla zona, per trarlo fuori dal combattimento che si avvicinava.”
“Le nostre forze tenevano i vari punti di accesso alla Montagna. Esse erano state quindi forzatamente sparpagliate dopo che avevo dato loro precisi ordini su come dovevano comportarsi (…). [Gli ordini] erano di non far fuoco fino a quando i tedeschi non fossero giunti a tiro più sicuro, affinché non si rivelassero anticipatamente al nemico le nostre posizioni. Intanto, io seguitavo a rimanere attaccato al telefono, onde avere sempre più precise notizie dalle zone di Folignano e di Castel Trosino ne per comunicare con i posti più in alto, dove si trovavano i due capitani e degli altri ufficiali con i loro uomini. Verso le 11, i tedeschi si erano avvicinati di molto e venivano avanti facendo partire di continuo raffiche di mitragliatrice, alle quali però i miei uomini nascosti non rispondevano, finché non vi furono costretti. Infatti, mentre ero ancora al telefono presso il comando (ove mi davano notizia che ad Ascoli i tedeschi avevano fatto irruzione a casa mia e l’avevano tutta devastata dopo aver preso alcune mie fotografie), sentii le prime scariche dei nostri fucili e di un fucile mitragliatore. Le artiglierie sparavano sempre qua e là, a casaccio, riuscendo soltanto a distruggere qualche tenda ed alcuni posti di rifornimento.
Io, con i miei uomini, rimasi nella zona del Colle San Marco sino alle 13, ora in cui decisi, dopo aver portato via quanto più si poteva dal magazzino, di abbandonare il nostro quartiere e di ritirarci più sopra, verso alcune rocce da cui provenivano degli spari. Per correre [più velocemente] nella direzione di questi spari con una quindicina di uomini fra i migliori, affidai ad altri più lenti il prigioniero, con l’ordine preciso e categorico di ucciderlo qualora egli avesse tentato di fuggire e qualora [il gruppo] si fosse trovato in pericolo estremo. Purtroppo, però, questi miei ordini non furono eseguiti, perché gli uomini, intimoriti dalle minacce e lusingati dalle promesse del prigioniero, lo ricondussero a notte inoltrata a casa sua.”
” Tratto in inganno dai colpi caratteristici di un fucile mitragliatore [italiano], io mi ci diressi, così da andare a cadere in un’imboscata involontaria su di un tratto della montagna completamente scoperto con tutti i miei quindici uomini, a causa di un reparto tedesco che di quel fucile mitragliatore, caduto nelle sue mani, si stava servendo contro una mia pattuglia mandata in precedenza avanti. La nostra situazione era critica: eravamo accerchiati su una zona scoperta (…) e quindi si ebbero i primi feriti, i quali cominciarono a lamentarsi del dolore, così da gettare il panico fra gli altri. Non vedendo alcuna via di scampo se non la fine sicura, [i miei compagni] si trovarono di colpo in piedi a chiedere la resa, sventolando fazzoletti bianchi.
Eravamo perduti. Sapevo la mia sorte e non ignoravo certamente quella di coloro che si davano prigionieri. Cercai di farlo capire ai miei, dicendo che quello che stavano facendo equivaleva a firmare la propria condanna a morte; ma a nulla valsero le mie grida disperate di continuare a far fuoco. E allora, risoluto a giocare il tutto per tutto pur di non darmi prigioniero, mi alzai anch’io con le braccia in alto, ma invece di scendere per incontrare i tedeschi più vicini (a circa trecento metri), incominciai ad indietreggiare per poter guadagnare una gibbosità del terreno che mi avrebbe coperto dal loro tiro. I tedeschi , accortisi della mia manovra, mi spararono appresso, ma fortunatamente a vuoto, cosicché, carponi, riuscii a mettermi al sicuro. Allontanandomi, mi scontrai con altri tedeschi, i cui colpi non mi raggiunsero e a cui risposi con la mia rivoltella. Tutto questo si svolgeva verso le ore 16 del 3 ottobre.”
Girovagai ancora, cercando di congiungermi, orientandomi con gli spari che sentivo ancora rintronare per tutta la montagna, con i miei gruppi, ma non mi fu possibile. Venne quindi la notte è la passai tutta nascosto vicino alle rive del fiume Castellano, fra i cespugli. Poi, alle prime ore del giorno, mi riportai verso la Montagna, perché speravo di giungere a San Giacomo, una località a mille e cento metri ove sapevo di poter trovare i capitani Pigoni e Torelli. Girai moltissimo, evitando da lontano i tedeschi e valendomi della mia conoscenza della Montagna, ma purtroppo rintracciai soltanto alcuni corpi, qua e là, di miei patrioti trucidati e seviziati a colpi di baionetta.
Altri [miei compagni] erano stati completamente sfracellati a colpi di sassi gettati con forza su di loro. Trovai pure parecchi elmetti tedeschi appartenenti a quei morti e a quei feriti che i loro camerati avevano avuto la cura di trasportare via (feriti e morti che erano oltre cento, secondo quanto si venne a sapere in seguito dagli abitanti di Folignano, i quali poterono assistere, nascosti, al caricamento di ben cinque autocarri pieni).
Tutto considerato, non mi rimaneva altro che ritornare in città, onde sapere qualche cosa di preciso da gente fidata. Venni così a sapere – era il giorno 5 ottobre – che quasi tutti i miei collaboratori erano stati (…) arrestati, perché i fascisti (tra cui Menghi, Costantini Guido e Nazzareno, il maggiore Pavia, comandante la Milizia, i fratelli Pavoni, Olori Umberto con il figlio Pasquale, lo Stella è il Bruno, della federazione fascista) li avevano indicati ai tedeschi. Appresi pure che mio padre era stato tratto prigioniero dai tedeschi in quella famosa domenica in montagna e condotto davanti al loro comandante (…) [I tedeschi tentarono di] obbligarlo a scrivermi una lettera nella quale mi si ingiungeva di scendere e di prendere il suo posto, altrimenti egli sarebbe stato fucilato. Mio padre fieramente rispose che non avrebbe fatto mai una cosa simile e che piuttosto era pronto a morire, ma mai avrebbe firmato la condanna a morte del proprio figlio, il quale aveva agito per il bene della Patria rovinata da quei fascisti che ora lo volevano morto. Di fronte al suo preciso e fiero comportamento, il comandante tedesco (un maggiore che voci comuni davano per antinazista), preso da viva ammirazione, rinunziò a giustiziare mio padre tra le proteste dei fascisti suindicati e ne decise il trasferimento da Ascoli, facendolo condurre via su di un autocarro per ignota destinazione (rimasta tuttora ignota, non avendone io avuta ancora alcuna notizia).”
“Ormai, i patrioti scampati sì erano tutti eclissati, dopo aver lasciato sul terreno il purissimo sangue di circa quaranta uomini e nelle mani dei tedeschi una trentina di prigionieri (…). Alcuni di questi riuscirono però a fuggire e a ritrovarmi dopo qualche tempo, quando mi rimisi nuovamente al lavoro per cercare di rintracciare tutte quelle armi che gli scampati avevano potuto nascondere. Quindi, mantenendo i nostri contatti senza riunirci e tenendo nascoste le armi presso di noi, ognuno prese il suo posto pronto a rientrare in azione al momento opportuno. Parecchi giovani entrarono a far parte della Milizia con il preciso incarico di raccogliere informazioni e di trafugare tutto quanto possibile in fatto di armi e materiali.
I fascisti ricominciarono a spadroneggiare sul popolo, commettendo soprusi che culminarono con l’uccisione di un ragazzo diciassettenne, figlio di un certo Franchi di Teramo, che si era trovato ad Ascoli nel momento in cui i fascisti bloccarono le strade per rastrellare tutti quei giovani che non si erano presentati alla chiamata dell’ultimo bando per il servizio del lavoro e per poi consegnarli ai tedeschi. Questo ragazzo, volendo tentare la fuga, fu preso sotto il fuoco dei fucili fascisti, restando subito cadavere. Per gli altri giovani che sfuggirono a quei rastrellamenti, i fascisti adottarono il sistema di arrestare i loro genitori, consegnandomi ai Carabinieri Reali o rinchiudendoli nel campo di concentramento per politici di Servigliano (…). Questo accadeva alla metà di ottobre. I fascisti, poi, iniziarono altri rastrellamenti riguardanti i vari depositi di viveri del Regio Esercito che noi avevamo pensato di occultare, decentrandoli presso magazzini privati. Tali ordini furono dati dal federale in persona ed eseguiti da Menghi e da altri. Il 28 ottobre, essendo stato dato l’ordine di esporre nei pubblici uffici la bandiera tricolore, si videro gruppi di più accaniti fascisti che, armati di forbici, andavano tagliando lo stemma sabaudo da tutte le bandiere che lo portavano. Questo fatto suscitò l’indignazione generale specialmente verso i carabinieri, i quali senza minimamente intervenire lasciarono che i fascisti, sotto i loro occhi e quelli del loro comandante, mutilassero la bandiera che sventolava all’entrata della loro caserma.
Nel frattempo, dato che avevano messo una taglia su di me (…) e che ero ricercato da tutti gli organi fascisti che avevano anche una mia fotografia, io mi eclissai, iniziando un lungo giro in cui potetti farmi un’idea di quello che era l’armamento [dei patrioti] della zona picena (…). Venni così a conoscenza della costituzione di bande armate a Montemonaco, Monte Ascensione, Rotella, Porchiano e Visso (…).”